Sunday, May 16, 2010

SBAGLI

Ma cos'è questa storia dei ministri "che sbagliano"? Che si punirà chi sbaglia (ma ovviamente senza fare di ogni erba un fascio o liste di proscrizione). L'espressione tradisce l'ansia di giustificare e minimizzare anche se si comprende perfettamente che non è possibile e che la gente, gli elettori, non capirebbero. E' singolare che sia lo stesso termine usato negli anni Settanta dagli autonomi (ma non solo) per definire i terroristi: "Compagni che sbagliano" sottointendeva infatti rivoluzionari in buona fede, che ammazzavano solo a causa di una tattica scorretta, ma in fondo senza dolo, quindi non era del tutto colpa loro. Lo stesso accade oggi con Scajola che non ha commesso un reato o come minimo è coinvolto in una pratica poco pulita, ma ha "sbagliato" è incorso in un errore, certo riprovevole quindi da sanzionare, ma che nel complesso va considerato come persona perbene. Se è cosi' si capisce pure lo stupore di Bertolaso che non capisce che per un "errore" molto meno grave Clinton rischio' la presidenza.

Monday, April 19, 2010

PRESENTAZIONI

Perché da noi nessuno si presenta? Mi telefonano spesso persone che cercano uno studio medico che ha un numero simile al mio. Nessuna che dica chi sia, che si presenti. Voci incerte (capiscono subito che qualcosa non va): "Ehm, io... avrei un appuntamento"; "Sono passato ieri mattina..." ecc. In Germania non si dice neppure "Pronto?", molti rispondono direttamente con il loro cognome: "Kaufmann!" Sì, sono tedeschi, ma gli inglesi dicono subito "This is..." e segue il nome. Nei film e telefilm americani vediamo sempre due persone che si presentano tre minuti dopo essersi conosciute (se nessuno lo fa per loro): certo possono essere ragioni di sceneggiatura, ma a chi non è successo di parlare con qualcuno in treno, o in una sala d'aspetto per decine di minuti senza saperne il nome e cognome? E' perché siamo cauti, che la fiducia nel prossimo è (quasi sempre a ragione) bassa e prima di fornire informazioni su di noi vorremmo avere maggiori rassicurazioni?
Certamente, ma c'è soprattutto impaccio, incapacità di usare le forme dell'educazione, le semplici formule che nessuno ci insegna, o meglio che riteniamo superate, antiquate, ridicole e obsolete perché noi vogliamo rappresentarci come spontanei, diretti, alla mano (il che significa anche volgari, il più delle volte) e invece finisce che facciamo figure patetiche e finiamo per dare del tu disinvoltamente a gente che non abbiamo mai visto (o cominciare mail con "Carissimo", come mi è capitato con una persona che faceva una proposta di lavoro) salvo poi pentircene quando i rapporti magari si guastano e allora tutta quella confidenza risulta imbarazzante e vorremmo tornare a un lei ormai precluso...

Thursday, February 18, 2010

ISTRUZIONI DI VIAGGIO

Sul treno tra Milano e Bergamo: regionale sporco, usurato, da sopportare per un'ora. Passa un controllore giovane gli do il biglietto. Dopo di me si ferma davanti a due ragazzi stranieri e in un inglese stentato sento che discutono: loro non hanno convalidato il biglietto e lui è deciso a multarli. I due sono ovviamente sconcertati, soprattutto per l'entità della sanzione (ormai ha raggiunto i 50 euro) e non si capacitano del fatto che da nessuna parte in stazione sta scritto che i biglietti vanno convalidati nelle macchinette - ed è vero: dopo la campagna iniziale delle ferrovie quando fu introdotta questa innovazione, non c'è più traccia di avvisi. Lui replica che sta scritto sul biglietto, in italiano e in inglese, e che non può fare altro che multarli. Mi alzo e mi avvicino al controllore: non può vedere se per caso sono in buona fede, magari verficando la data e ora di emissione del biglietto? Se scopre che è stato emesso mezz'ora fa magari si rende conto che effettivamente non sapevano della norma. Mi risponde che lui non è il capotreno e che il suo dovere è rispettare il regolamento e poi, imprevedibilemente, che "questi" fanno sempre come gli pare, che anche la mattina ha dovuto chiamare la polizia perché quattro marocchini viaggiavano senza biglietto, e che farebbero bene stare a casa loro. I due ragazzi sono tutt'altro che marocchini, biondi, vestiti decentemente e dall'aria comprensibilmente esterrefatta. Gli chiedo di ripensarci, che a me è capitato un sacco di volte di dimenticare di convalidare e mai nessun controllore mi ha multato, limitandosi a scrivere a penna sul biglietto una convalida sostitutiva. Commenta che per me è diverso, che io lo sapevo (?) e che comunque lui non può e non vuole farci niente. Siamo in un impasse: i due obiettano che la cosa gli pare del tutto ingiusta, io insisto che almeno gli faccia la sanzione ridotta, quella da otto euro, che si tratta di due ragazzi perbene. Chiedo a loro da dove vengono e quando rispondono "Serbia" lui pare rafforzarsi nella sua posizione. A un certo punto il treno si ferma in una stazione, vedo le porte aprirsi e gli dico "li faccia scendere", lui acconsente con una alzata di spalle, loro non se lo fanno dire due volte: mi ringraziano rapidamente e si precipitano all'uscita.
In realtà non sanno, come in genere non sappiamo neppure noi, che la convalida del biglietto è stata escogitata per ovviare a un problema che le Ferrovie non sono mai riuscite a risolvere: i controllori tirano a lavorare il meno possibile e spesso non fanno neppure il giro di controllo dei biglietti. Ho viaggiato decine di volte su quel treno e almeno la metà dei viaggi non si è presentato nessuno a chiedermi il biglietto.

Sunday, January 17, 2010

PROVE DI REALTA'

Cammino per la città e cerco di non guardare le scritte sui muri per non arrabbiarmi, ma non ci riesco. Le vedo spuntare da ogni parte, indovino la lotta persa in partenza da portieri e inquilini che ogni tanto ripuliscono le facciate con una mano di vernice: ma c'è poco da fare, i tags ributtanti rispuntano come funghi dopo il temporale ogni mattina. Su alcuni palazzi (quelli pubblici perlopiù) si accumulano e stratificano in arabeschi osceni, segni sghignazzanti che mettono a nudo l'incuria, l'indifferenza, la rassegnazione. Il Comune ha ormai smesso di fare proclami di lotta: è solo riuscito a suscitare i piccati distinguo della Soprintendenza, che rivendica la potestà sull'aspetto esteriore dei palazzi storici. Il primo evidentemente non comprende (o meglio capisce benissimo ma finge di non saperlo) che annunciare un programma di ripulitura non è che un misero palliativo e solo un favore fatto ai taggers notturni; la seconda che l'ottusa difesa delle proprie prerogative lascerà solo le cose come stanno, e probabilmente non farà che peggiorarle. Entrambi a quanto pare vivono in una città immaginata, che non è quella della gente normale.
Altro fantastico indizio di questo mondo onirico in cui si culla la città ufficiale sono le insegne. Ormai sono decine: sopra un negozio di abbigliamento sportivo (notissima griffe di giubbotti in pelle) campeggia l'insegna delle telerie che in quei locali prosperavano cinquant'anni fa; sopra la libreria di tendenza aperta da poco più di un anno si allineano le grossolane lettere di plastica bianca che compitavano il nome di un cinema scomparso da decenni; sopra una boutique modaiola si impone la sinuosa insegna liberty di una cartoleria aperta nei primi anni del secolo scorso; sopra una interessante mostra d'arredamento si legge il sobrio epitaffio di una storica libreria, fallita da almeno vent'anni. Mi domando sempre cosa possa pensare uno straniero che capiti da noi senza essere preventivamente avvertito: probabilmente a uno scherzo, o che per qualche misterioso intoppo la nuova insegna deve ancora essere installata. Invece no: l'effetto straniante, per così dire, fa parte di una dichiarata politica di conservazione della memoria: a ricordare ai cittadini chi eravamo, come era la città nei tempi andati, come era bello quando le signore della buona borghesia soppesavano i tessuti in vendita a metraggio nello storico negozio, o quando gli scolaretti rinnovavano il corredo di pennini e quaderni in vista dell'inizio del nuovo anno. Un inane sforzo di mantenere in vita un passato immaginario, che probabilmente non è mai esistito, e insieme la determinazione a distogliere lo sguardo dalle attuali e reali brutture tracciate sui muri, ogni notte, con le bombolette spray.
Cosa possiamo aspettarci da chi mostra una tale concezione della realtà? Cosa può fare per contrastare questo deprimente degrado chi appare impegnato a trattenere la sabbia del tempo che gli sfugge inesorabilmente tra le dita? Ho sempre più l'impressione di vivere in un luogo dove si ha paura di spostare qualunque cosa, e dove soprattutto si ha paura del cambiamento, del futuro. E - lo si sarà capito - l'amministrazione di cui stiamo parlando è quella una delle più celebri e blasonate giunte di sinistra del paese.

Tuesday, January 12, 2010

Oggi ho visto una cosa che mi ha impressionato. Ero alla fermata del bus, ordinaria attesa del mezzo. Dal minimarket accanto esce una ragazza, una donna di una trentina d'anni, ucraina forse o moldava, con un sacchetto di pistacchi in mano. Nell'aprirlo di colpo ne cadono un venti-trenta sul marciapiede. Non è un marciapiede molto pulito: ci sono cicche, cartacce, le solite cose. Lei si piega e penso che forse li vuole recuperare, col guscio non si sono sporcati, ma no: li raccoglie uno a uno coscienziosamente e li getta nel cestino dei rifiuti accanto, accertandosi che non ne resti nessuno in terra. Ho pensato che un italiano, e neppure una donna italiana, avrebbe fatto lo stesso: li avrebbe lasciati lì, o al massimo li avrebbe spostati col piede in un angolo.
Ma che razza di gente siamo se a prendersi cura di ciò di cui noi non ci sogniamo di preoccuparci (il decoro di un marciapiede) sono invece gli stranieri? Mi viene la tentazione di fare un parallelo coi vecchi, di cui non ci curiamo più ecc. ma la scaccio subito: sarebbe bassa retorica dei buoni sentimenti, e non ci credo. No, ai nostri vecchi ci teniamo, e per fortuna che ci sono le badanti, ma per tante altre cose siamo svogliati e disillusi.
Un altro pensiero che mi è venuto è che la donna ucraina temesse di poter essere ripresa da qualcuno, come la solita immigrata che viene a fare casino, e si è affrettata a rimettere ordine. Ma questo sarebbe pure peggio, e spero proprio che non sia così.

Thursday, December 17, 2009

Sono stato al Moma, a New York. Veramente si dovrebbe scrivere MoMA o qualcosa del genere, ma immagino si capisca cosa sia. L'edificio è bellissimo, incantevole: cinque o sei piani di sale amplissime, luminose, con aperture interne e la possibilità di guardare dall'alto e vedere da un piano all'altro l'affollarsi dei visitatori, l'incessante ritmo silenzioso e cadenzato delle visite. L'arte contemporanea non mi fa più l'effetto di una volta: quando ero più giovane cercavo di capire i significati profondi che si nascondevano sulla superficie di quelle tele: mi sforzavo di vedere le linee, le macchie, la materia costitutiva dei quadri e pensavo che ogni opera avesse una sua precisa collocazione nel cosmo, che rappresentasse un punto insostituibile e necessario nella costruzione di un tutto significante, di un estetica moderna densa di siginificati, dello svolgersi di concetti assoluti e rivelatori. Non era Fontana che intitolava i suoi quadri Concetto spaziale? Ecco quel concetto era come una pagina di Calvino, esemplificata nelle lezioni americane: esatta, leggera, rapida, e in una parola vera nel suo nudo presentarsi agli occhi di chi le stava di fronte. Cercavo - e mi convincevo di trovare - un'epifania, anche se molto spesso mi dicevo che se non provavo sufficiente emozione era per colpa mia, che non riuscivo a cogliere, a penetrare quegli assoluti, che sarebbe occorso tempo, e studio, e riflessione per elevarmi a quella percezione esoterica.
Perché ci soffermiamo in religioso silenzio di fronte a qualche decina di quadri prodotti da poche persone che hanno avuto la ventura di vivere tutti in pochi chilometri quadrati nel corso di alcuni anni tra il secondo e il terzo decennio del secolo scorso? Ho letto di recente che dalla classe universitaria di Damien Hirst sono usciti tre o quattro dei maggiori artisti contemporanei viventi. Come è possibile? Non c'è una valida ragione statistica per questo, e noi perché dovremmo credere - perché si tratta di condividere una credenza - a una simile improbabile eventualità?
Non è un pensiero originale, ma anch'io sono sempre più convinto che a orientare il nostro gusto, le nostre idee in fatto di arte ed estetica, la nostra venerazione (parola spia) per i capolavori, sia una sorta di atteggiamento religioso. Ci rechiamo in pellegrinaggio a musei e mostre come si fa con i santuari e le reliquie. Siamo convinti che l'arte porti dei significati reconditi. Che le opere in quanto oggetti siano dotate di un'aura speciale che le rende uniche e preziose. Che l'avvicinarci a un'opera possa renderci migliori o elevarci al di sopra della miseria quotidiana. Che gli artisti siano persone sovrumane, dotati di percezioni superiori e degne di venerazione e di narrazione biografica. Per non parlare della sacralizzazione (museizzazione) di tutto ciò che hanno toccato o dei luoghi in cui hanno vissuto. Questa chiesa dell'arte ha i suoi santi, i sacerdoti, discepoli, credenti e reprobi. Un tempo l'arte era sacra perché ancella della religione (quella vera) oggi si è sacralizzata, riportando a una pratica cultuale enormi stuoli di gente che credeva di essersi liberata di ogni credo religioso. De hoc satis.

Beh, certo, Stasi è antipatico: un tg oggi lo definiva "glaciale" solo perché se ne stava buono e zitto all'ultima udienza. Lo stesso capitava con Scattone e Ferraro, a suo tempo, e anche Annamaria Franzoni non ha mai goduto del favore del pubblco. Ma il punto è che in un paese civile se non ci sono prove, se ci si fonda solo su indizi controversi e indagini grossolane non si può, e non si deve, condannare. Sì, ci sta antipatico, e poi "se non è stato lui, allora chi è stato?" e anche "ma a me non mi convince": bene, quindi che lo facciamo a fare un processo? Tanto vale impiccarlo in piazza, no? Fortuna che ha trovato un giudice coscienzioso che non si è accontentato del castello costruito dall'accusa, che non ha avuto rispetto corporativo per i suoi colleghi (e colleghe) pm e che ha ordinato nuove perizie e ricostruzioni e ha deciso secondo ciò che gli dettava la coscienza, e non la pancia.

Sunday, April 26, 2009

Nella lingua italiana è in corso un processo di semplificazione, lo si vede ogni giorno. Una forma che va scomparendo è il 'neppure', 'neanche'. Sempre più spesso si sente, si legge: "anche io, non.../anche noi, non..." Accade in maniera del tutto inconsapevole e di fatto non suona neppure più tanto stonato. In una mail una docente di Letteratura italiana alla Normale di Pisa mi scrive "anche io non amo le cose lasciate a metà", anziché "neppure io..."; e Sansonetti stamattina alla rassegna stampa di Radiotre dice a un ascoltatore "anche io non l'ho letto" e nessuno lo corregge.