Thursday, December 17, 2009

Sono stato al Moma, a New York. Veramente si dovrebbe scrivere MoMA o qualcosa del genere, ma immagino si capisca cosa sia. L'edificio è bellissimo, incantevole: cinque o sei piani di sale amplissime, luminose, con aperture interne e la possibilità di guardare dall'alto e vedere da un piano all'altro l'affollarsi dei visitatori, l'incessante ritmo silenzioso e cadenzato delle visite. L'arte contemporanea non mi fa più l'effetto di una volta: quando ero più giovane cercavo di capire i significati profondi che si nascondevano sulla superficie di quelle tele: mi sforzavo di vedere le linee, le macchie, la materia costitutiva dei quadri e pensavo che ogni opera avesse una sua precisa collocazione nel cosmo, che rappresentasse un punto insostituibile e necessario nella costruzione di un tutto significante, di un estetica moderna densa di siginificati, dello svolgersi di concetti assoluti e rivelatori. Non era Fontana che intitolava i suoi quadri Concetto spaziale? Ecco quel concetto era come una pagina di Calvino, esemplificata nelle lezioni americane: esatta, leggera, rapida, e in una parola vera nel suo nudo presentarsi agli occhi di chi le stava di fronte. Cercavo - e mi convincevo di trovare - un'epifania, anche se molto spesso mi dicevo che se non provavo sufficiente emozione era per colpa mia, che non riuscivo a cogliere, a penetrare quegli assoluti, che sarebbe occorso tempo, e studio, e riflessione per elevarmi a quella percezione esoterica.
Perché ci soffermiamo in religioso silenzio di fronte a qualche decina di quadri prodotti da poche persone che hanno avuto la ventura di vivere tutti in pochi chilometri quadrati nel corso di alcuni anni tra il secondo e il terzo decennio del secolo scorso? Ho letto di recente che dalla classe universitaria di Damien Hirst sono usciti tre o quattro dei maggiori artisti contemporanei viventi. Come è possibile? Non c'è una valida ragione statistica per questo, e noi perché dovremmo credere - perché si tratta di condividere una credenza - a una simile improbabile eventualità?
Non è un pensiero originale, ma anch'io sono sempre più convinto che a orientare il nostro gusto, le nostre idee in fatto di arte ed estetica, la nostra venerazione (parola spia) per i capolavori, sia una sorta di atteggiamento religioso. Ci rechiamo in pellegrinaggio a musei e mostre come si fa con i santuari e le reliquie. Siamo convinti che l'arte porti dei significati reconditi. Che le opere in quanto oggetti siano dotate di un'aura speciale che le rende uniche e preziose. Che l'avvicinarci a un'opera possa renderci migliori o elevarci al di sopra della miseria quotidiana. Che gli artisti siano persone sovrumane, dotati di percezioni superiori e degne di venerazione e di narrazione biografica. Per non parlare della sacralizzazione (museizzazione) di tutto ciò che hanno toccato o dei luoghi in cui hanno vissuto. Questa chiesa dell'arte ha i suoi santi, i sacerdoti, discepoli, credenti e reprobi. Un tempo l'arte era sacra perché ancella della religione (quella vera) oggi si è sacralizzata, riportando a una pratica cultuale enormi stuoli di gente che credeva di essersi liberata di ogni credo religioso. De hoc satis.

Beh, certo, Stasi è antipatico: un tg oggi lo definiva "glaciale" solo perché se ne stava buono e zitto all'ultima udienza. Lo stesso capitava con Scattone e Ferraro, a suo tempo, e anche Annamaria Franzoni non ha mai goduto del favore del pubblco. Ma il punto è che in un paese civile se non ci sono prove, se ci si fonda solo su indizi controversi e indagini grossolane non si può, e non si deve, condannare. Sì, ci sta antipatico, e poi "se non è stato lui, allora chi è stato?" e anche "ma a me non mi convince": bene, quindi che lo facciamo a fare un processo? Tanto vale impiccarlo in piazza, no? Fortuna che ha trovato un giudice coscienzioso che non si è accontentato del castello costruito dall'accusa, che non ha avuto rispetto corporativo per i suoi colleghi (e colleghe) pm e che ha ordinato nuove perizie e ricostruzioni e ha deciso secondo ciò che gli dettava la coscienza, e non la pancia.

Sunday, April 26, 2009

Nella lingua italiana è in corso un processo di semplificazione, lo si vede ogni giorno. Una forma che va scomparendo è il 'neppure', 'neanche'. Sempre più spesso si sente, si legge: "anche io, non.../anche noi, non..." Accade in maniera del tutto inconsapevole e di fatto non suona neppure più tanto stonato. In una mail una docente di Letteratura italiana alla Normale di Pisa mi scrive "anche io non amo le cose lasciate a metà", anziché "neppure io..."; e Sansonetti stamattina alla rassegna stampa di Radiotre dice a un ascoltatore "anche io non l'ho letto" e nessuno lo corregge.

Friday, April 17, 2009

Parliamo di Annozero di ieri sera. La discussione pubblica ha raggiunto l'usuale parossismo di noia: va da sé che la satira è sgradevole, va da sé che non è fatta per piacere o compiacere, che deve tirare fango ad alzo zero ecc. Le trasmissioni del conduttore sono così da anni, faziose e scontate, nulla di nuovo e d'altra parte la reazione della Rai con la sospensione del disegnatore è una misura ridicola a dir poco.

Più interessanti dal mio punto di vista due macroscopici errori di ortografia: un cartello mostrato dal conduttore che riportava "provincie", con la 'i', e una vignetta del disegnatore dove il povero precario dice: "ma così no sto sù", "sù" con l'accento. Ecco: sono qui i particolari rivelatori.

Solo una piccolissima annotazione di merito: come in Dario Fo anche la satira di Vauro si appella a una purezza cristiana perduta - quasi un tema francescano - e mette in scena un "povero-Cristo" precario. Anche in questo la sinistra italiana non riesce - proprio non gli riesce - a essere laica. Poi magari dicono che il paradigma religioso è nazional-popolare, ma penso proprio che sia purtroppo la spia di un atteggiamento intimamente religioso: moralista e dogmatico.